La Recensione: “La zia di Carlo”



 a cura di Francesca Perissinotto

 

Risate e tanto divertimento ieri sera hanno accolto “La zia di Carlo”, pièce nata dalla penna di Brandon Thomas e diretta, per Teatroindirigibile, da Renzo Mariani e Carlo Verga.

Lo spettatore è introdotto alla vicenda nell’abitazione di Giacomo Chesney (Stefano Livio), studente inglese alle prese con una lettera d’amore per Kitty Verdun (Claudia Mazzon); le interruzioni della governante Rosemary (Chiara Ardino), si aggiungono all’irrompere sul palco di Carlo Wikeham (Mattia Polisano), amico del giovane che condivide le difficoltà nel dichiararsi alla sua Amy Spettigue (Elisa Moscatelli). Di fronte all’ostacolo insormontabile della stesura delle lettere, i due decidono di invitare le ragazze per una colazione, con il pretesto di presentare loro la zia di Carlo, Donna Lucia de Alvadorez, vedova miliardaria proveniente dal Brasile (“il paese delle noccioline!”). Solo all’ultimo minuto, però, sullo sfondo del fallimento finanziario della famiglia Chesney e della preoccupazione di Stefano Spettigue (Fabrizio Ferrante) per le sue due protette, Donna Lucia fa sapere che la sua visita tarderà di qualche giorno. È allora che diventa fondamentale il ruolo di Federico Babberley (Yuri Maritan), giovane amico dei due universitari, in quel momento alle prese con una recita teatrale: i suoi costumi di scena gli varranno il privilegio di interpretare, nella vita reale, una caratteristica Donna Lucia, permettendo l’incontro agli innamorati. Nessuno, però, poteva prevedere il conflitto tra i due pretendenti di Donna Lucia, il tenace signor Spettigue e Sir Francis Chesney (Matteo Gugliotta), o l’arrivo di Lucy (Benedetta Scillone), la vera Donna Lucia, e di Ela Dehlay (Anna Butti), di cui è dichiaratamente innamorato l’impegnatissimo Federico.

Il ritmo incalzante della trasposizione è sottolineato dallo scambio frenetico di battute, che raggiunge l’apice nella ricorrente sovrapposizione delle voci degli attori. Sostegno del vortice di parole è la presenza scenica dei personaggi, nella duplice direzione dello sfruttamento del palco su più livelli di profondità e nel perfetto coordinamento delle azioni, che sfociano in una vera e propria coreografia farsesca, resa autentica dalla naturalezza degli interpreti. Lo sfruttamento importante delle quinte e la frequente citazione del mondo non visibile al pubblico, oltre il ritaglio della scena, adduce un ulteriore sfaccettatura alla complessità proposta. In quest’ottica, le scenografie fungono da contraltare, spesso in funzione di metafora inversa, al mosaico dei fatti: il palco si apre sulla camera di Giacomo Chesney, un disordinato salotto assalito da palline di carta e intimo femminile nascosto tra gli arredi; nel secondo atto, la vicenda è ambientata nel giardino della casa, reso attraverso l’uso di arredamenti in vimini ordinatamente disposti; si passa quindi al soggiorno di Stefano Spettigue, incorniciato da un divano e da un pianoforte, sui lati della scena. Se, nel momento della macchinazione dell’inganno, il caos e la varietà dominano il palcoscenico, il tutto viene sovvertito nel secondo atto, quando le dinamiche tra i vari personaggi sono ormai evidenti; anche l’identità della vera Donna Lucia e di Ela Dehlay, in quel contesto, è subito rivelata al pubblico. In una sorta di crasi tra i due ambienti viene proposto il soggiorno di Stefano Spettigue, in cui la dinamica tra pubblico e attore, spettatore sapiente e interprete, è riproposta – in una sorta di citazione metateatrale implicita – nella disposizione degli attori sul divano, sul lato sinistro del palco, che osservano prima l’interpretazione musicale di Federico (al pianoforte sulla destra), per poi assistere allo snodo di tutti gli intrecci nell’incredulità del signor Spettigue, al centro della scena.

Cuore dello spettacolo è l’interpretazione di Yuri Maritan, il cui talento è più volte sottolineato dagli applausi incontenibili del pubblico anche durante l’azione. La serietà dimostrata nella forza del personaggio si impone grazie alla capacità dell’attore nell’uso della voce, prima grave, naturale o prorompente a seconda delle occasioni, per innalzarsi poi ad un prolungato falsetto, mai invadente, in grado di conquistare la platea. Emergono anche le figure di Stefano Livio, che evade le figure wildeiane in cui ha brillato nelle precedenti rassegne, per dimostrare una versatilità in grado di offrire al pubblico un senso di autenticità e di tramite, e quella di Mattia Polisano, abile nel trasmettere il senso di frenesia e concitazione derivante dall’evolversi degli equivoci.

In scena nuovamente sabato 25 aprile, “La zia di Carlo” è un inno alla leggerezza, resa possibile dall’abilità della Compagnia, dei registi, dei tecnici (e si ringraziano in particolare Matteo Minora per le luci e la musica, Marisa Furlan per i costumi), in grado, nel continuo lavoro e in nome della passione per il teatro, di regalare sempre una grande emozione.