a cura di Benedetta Scillone
Ci sono sere in cui ringrazio di cuore di aver scovato il teatro di Figino Serenza una decina d’anni fa. Oh, preavviso lor signori che questa non sarà né una recensione né tanto meno una critica teatrale, bensì una storia.
Una di quelle che si amano ascoltare o leggere senza distrazioni.
Questa storia ha inizio tanti anni fa durante il boom economico della città di Torino e delle sue periferie, che si andavano popolando di dialetti, colori, odori in un incastro di età, speranze e disillusioni.
Nella città di Settimo Torinese (sette miglia da Torino) si trasferisce un giorno una bambina di campagna sveglia, curiosa e chiacchierona. Questa bambina osserva tutto il giorno la vita di quel cantiere a cielo aperto che è la città di Settimo: le navette di operai diretti in fabbrica, le scuole inscatolate in appartamenti, i grappoli di citofoni agli ingressi dei palazzi -quasi più senza volti-, l’andirivieni di maestre giovani ed effimere, le visite sempre più frequenti di signorine di città per farsi confezionare abiti dalla madre sarta, la modernità del gas e della tv in casa, la pattumiera all’americana e l’antica battaglia fra inquilini e pantegane civilizzate.
La bambina osserva questo mondo opaco, sfocato di nebbie, fumi chimici, odori pestilenziali che si alternano ai lezzi di basilico e rosmarino della memoria, ai ricordi delle abitudine e dei volti in campagna. Osserva il cielo grigio e s’ingrigisce, fondendosi con quell’aria, quell’ambiente alienante affollato di persone ma parco di identità. S’ingrigisce così tanto da assumere un colorito azzurrognolo tipico della rane da cui prenderà il nomignolo.
Un giorno la rana viene trascinata da una vicina di casa a vedere uno spettacolo teatrale nella Casa del Popolo.
Che cosa vede mai?
Vede il mondo degli adulti con le loro strambe abitudini e parole fondersi in un’unica donna dal dialetto antico e coinvolgente. Sarà questa attrice che interpreta Maria sotto la croce, la Passione di Cristo, a risvegliare un dolore antico nell’animo della bambina, un pianto a dirotto per dar vita a un’altra passione: quella di Laura Curino, la bambina-rana, per il teatro. Passione per questo mondo di storie vere, autentiche raccontate a memoria.
L’attrice porta la profondità dei suoni nella voce, la plasticità e l’eleganza nei movimenti studiati, l’ilarità dell’improvvisazione in mezzo a un pubblico sconosciuto; porta l’incontro, l’inatteso, il sospiro di soddisfazione che ti coglie quando il teatro incontra la tua storia.
Spicca sul palcoscenico come un’ombra neutra, grigio-nero vestita, che prende vita come la statua di Galatea davanti a Pigmalione grazie alle luci che ora coprono, scoprono, rivestono, ingigantiscono, sfumano un personaggio, una voce, un ricordo, una risata, un canto, un lamento.
Laura Curino si presenta sul palco, irradia se stessa, poi si sdoppia, si triplica, si decuplica in voci, toni, caratteri diversi per natura e condizione sociale. Modula la voce, la arrochisce, cantilena o gusta il dialetto torinese mentre racconta questa storia di passione.
Guardi la meraviglia del palco e ti sembra sia abitato da una decina di personaggi diversi: la donna ha questa abilità di sdoppiarsi e di creare dialoghi restando sola in scena.
Mentre recita la Passione di Cristo, una scena tratta da un’opera del XIII secolo e rappresentata durante le stazioni della Via Crucis, l’attrice dà voce, volto e corpo alle pie donne in lacrime sotto la croce, al soldato romano burbero e caciarone, a Maria madre terrena, a Cristo in croce -un braccio solo levato nel buio delle quinte-, a Gabriele, angelo dell’Annunciazione, che ritorna a consolare la Vergine, ammettendo di non poter comprendere a fondo il suo dolore di madre. Sul pianto finale della bambina-rana nasce Laura Curino come noi oggi la conosciamo: una donna di storie, una donna di teatro, una donna di passione.