a cura di Francesca Perissinotto
Quattro mani hanno dato alla luce “Niente sesso, siamo inglesi” e quattro mani servono ad applaudire i talenti, diretti dalla visione di Carlo Verga, che hanno animato ieri sera il palco figinese.
Anthony Marriott e Alistair Foot trascinano il pubblico nelle rocambolesche reti di una farsa dai ritmi frenetici e “caldi”: protagonisti della vicenda sono in primo luogo i novelli sposini inglesi Peter e Frances Hunter (Yuri Maritan e Brenda Solenne), i quali, nella speranza di ricevere una collezione di cristalli scandinavi, si ritrovano a dover gestire ben altri tipi di “pacchi”. La “Scandinavian Import Company”, agenzia di vendita per corrispondenza, si scopre essere in realtà il falso referente per un’agenzia di produzione pornografica e di accompagnatrici; a seguito di un cospicuo assegno versato per errore da Peter, l’agenzia continua ad inviare materiale compromettente alla coppia. Tuttavia, avendo come complice Martin Bridge (Matteo Gugliotta), le cose non possono che precipitare: fotografie pornografiche gettate nel Tamigi, la pellicola “Prendilo Qui Quo Qua” proiettato davanti ai membri dell’Ora Serena delle Pie Donne – il “pornografo fantasma” diventa un vero e proprio caso mediatico che coinvolgerà sempre più soggetti, fino alla conclusione esplosiva in cui ogni cosa verrà svelata.
Punto forte di questa messa in scena sono i personaggi, che coinvolgono la platea al punto da costringere gli attori a lottare con le sue risate. In particolare, accoglie il grande favore del pubblico Matteo Gugliotta, qui nei panni di Martin Bridge: ispettore dei boy scouts, attore in una filodrammatica, tesoriere dei Lions, arbitro di calcio, cattolico inglese, il testimone di nozze di Peter è forse uno dei caratteri più comici della stagione. Le risate (che non si fermano neanche nel momento di verità metateatrale in cui Martin spiega al pubblico la sua situazione, ovvero il dramma della sua incapacità di essere riconosciuto dagli altri), si rivelano però tramite impalpabile per condurre lo spettatore a cogliere le caratteristiche di una società dipinta nella nudità delle sue apparenze. Emblematico è ancora una volta il personaggio di Martin, che, già solo nell’incredulità con la quale viene accolto il suo essere cattolico e inglese, rivela le contraddizioni con le quali lo stereotipo britannico delle buone maniere è rivelato per la sua natura di coltre, attraverso cui nascondere un commissario che beve vodka e organizza serate “per soli uomini” con i filmini su cui è chiamato ad indagare, oppure attraverso cui rispettabili banchieri procrastinano impegni per dedicarsi di nascosto all’ispezione dei prodotti della Scandinavian Import Company.
Il Verga riesce del resto ad imporre una sua lettura critica all’opera, senza privarla dell’ilarità dovuta alla farsa. La sua critica emerge attraverso due linguaggi: la scenografia ed il commento musicale. La scena è dominata da un divano, al centro del palco, a cui fanno da cornice cinque porte (due per lato ed una centrale); la simmetria della composizione è però sbilanciata dal citofono, sulla destra della porta centrale: in qualità di strumento attraverso cui i pacchi/motori della storia entrano nella vita dei protagonisti, la sua posizione sembra già suggerire in sé stessa una anticipazione del futuro della vicenda, in cui gli equilibri di una apparente vita di buona famiglia inglese saranno catapultati nel caos. Altro elemento di critica, sebbene mantenga forti toni farseschi, è il commento musicale. Nel ruolo di narratore anonimo o spirito malefico e tentatore, il gruppo dei Beatles incarna l’anima goliardica e vivace degli anni ’70 che proprio in quella nazione, l’Inghilterra, ha avuto una delle sue voci più importanti: All you need is love apre e chiude gli atti, quasi a spingere i protagonisti e stringere loro l’occhiolino verso il loro destino; al termine della vicenda, Yellow Submarine coglie invece i toni ironici dell’intera vicenda e la vicinanza (o, come direbbe Martin, il riconoscimento) sorta dalla caduta delle convenzioni.
La regia del Verga diventa, in conclusione, un invito a guardare la vita con più ironia; lo spettacolo trasmuta in momento di ossigeno attraverso cui, insieme con i protagonisti, “svestirsi”, spinti dalle risate, dei problemi e delle incombenze.